Ad alcuni, specie a coloro che hanno un po’ meno esperienza nel mondo dei videogiochi, potrebbe venire naturale una domanda: dove sta la vera linea di demarcazione tra un videogioco che ha un “normale” successo e un videogioco che diventa pietra miliare del genere?
È una domanda la cui risposta non è affatto semplice. Innanzitutto, non è così scontato che un gioco che proponga nuova tecnologia diventi un successo: nella storia videoludica si registra la presenza di parecchi “clamorosi fallimenti”. È quello che è capitato per esempio alla Sega, che nel 1999 lanciò la sua nuova consolle, la Dreamcast, che avrebbe dovuto segnare una netta differenza dalla Playstation e aprire la strada verso una nuova generazione di consolle. Fu invece un singolare disastro: il successo durò veramente poco e fu limitato, per poi praticamente azzerarsi l’anno successivo con l’uscita della Playstation 2. Attualmente la Sega produce videogiochi per altre consolle.
Può anche capitare che di un gioco se ne parli tantissimo intorno all’uscita in quanto promette molto bene, ma che poi se ne perdano le tracce. Anche in questo caso siamo ben lungi dal considerarlo una pietra miliare, in quanto non è altro che un gioco “en passant”.
Considerando l’epoca di DooM (primi anni ’90), non possiamo dire che il successo si è avuto in quanto era l’unico gioco disponibile. È vero, il bacino d’utenza era limitato, ma di videogiochi a disposizione ce n’erano già parecchi. Si potrebbe allora obiettare che fosse l’unico gioco tridimensionale a disposizione. È vero, ma ciò giustifica soltanto parzialmente l’enorme successo avuto, nel senso che, fosse stato solo per quello, magari sarebbe stato comunque ricordato a lungo, ma con meno enfasi.
La vera chiave sta nel saper unire uno schema di giocabilità che “prenda” e appassioni il giocatore ad una longevità tale per cui esso si senta parte di una lunga e complicata campagna, inserirci l’ambientazione e la grafica adatta, il sonoro, e rendere il tutto una cosa sola e omogenea.
Potrebbe sembrare banale, ma in realtà non lo è affatto.
Ancora oggi ci sono un’infinità di giochi che hanno una grafica eccezionale ma che poi si perdono in banalità dal punto di vista del gioco o si finiscono in un attimo (scarsa longevità).
Questo in linea di massima: ovviamente, poi, certe volte è ancora più complicato. Ogni caratteristica va infatti adatta al meglio secondo il genere videoludico a cui il gioco appartiene. Per citare un esempio, nei giochi sportivi la longevità non esiste, in quanto si tratta di portare a termine campionati, coppe, stagioni…; anche il concetto di giocabilità è leggermente diverso, in quanto qui si tratta di rendere il gioco il più simile possibile allo sport vero.
Tornando a DooM, possiamo notare come questo gioco soddisfasse tutte le caratteristiche. Aveva uno schema di gioco unico (da una parte i labirinti, le chiavi da cercare, gli interruttori da sbloccare, tantoché per certi versi era assimilabile ad un “megapuzzle”; dall’altra il dover sconfiggere con le armi a propria disposizione mostri di difficoltà sempre crescente); come longevità era praticamente il gioco più longevo dell’epoca (perdonatemi se pongo sempre lo stesso esempio ma rende l’idea a tutti: non è errato fare la considerazione che in Giappone già nel ‘91/’92 sono usciti giochi di ruolo come Dragon Ball Z: The Legend of Super Saiyan per SNES che presentavano comunque una certa longevità, ma la cui diffusione è stata così ridotta che sono praticamente trascurabili; per la cronaca, il gioco dell’esempio citato precedentemente non è mai uscito in Italia nella sua versione originale, ed è stato tradotto soltanto per gli emulatori); la grafica, come già detto più volte, era rivoluzionaria ; il sonoro era tale per cui la tensione non ti mollava un attimo.
Chi ha giocato a DooM sa cosa intendo con queste frasi; per rendere un’idea a chi non ha mai avuto la fortuna di farlo, immaginate la tensione mentre vi siete persi in qualche corridoio, la musica è al massimo del thrill, e ad un certo punto incontrate un mostro in un angolo buio…
Conclusioni
Al di là del blasone che un gioco ha o si porta dietro, il vero successo dipende solo da sé stesso. Come detto la storia lo ha dimostrato e lo dimostrerà ancora: da sempre la corsa degli eventi è maestra di vita ma le sue lezioni non vengono ascoltate dagli uomini, che finiscono sempre con il rimetterci.
Il “Doom Style” ha aperto dieci anni fa un nuovo modo di concepire i videogiochi, l’ha fatto di nuovo con il terzo capitolo, e lo farà ancora. Uno stile consolidato non tradisce mai le aspettative e si mantiene nel tempo.
Mi sembra quindi d’obbligo far notare che dieci anni dopo l’uscita questo gioco rimane giocabilissimo, divertentissimo, speciale, soprattutto nella sua versione originale ma anche nelle miriadi di mappe aggiuntive, e chi sottovaluta questo capolavoro dicendo che è preistoria e che ora è ingiocabile sbaglia perché non si rende conto che molto probabilmente senza il genio di Carmack, Romero e Co. forse l’evoluzione e la diffusione dei videogiochi sarebbe andata molto più lentamente di quanto ha effettivamente fatto negli ultimi 10 anni e con questo anche la diffusione del multiplayer, non a caso i tornei principali di multiplayer sono di sparatutto.